Contenitori per acqua accatastati senza ordine, di lato Merita Saciri, 14 anni a settembre, l’espressione un po’ pensierosa un poco intrigante, i contenitori non riescono a nasconderne la bellezza del volto e del giovane corpo – Campo nomadi di S. Maria Capua Vetere, maggio 2005, foto di Patrizia Posillipo
Giugno 2005. Alie Fetani controlla l’ora dal polso, la mano raggrinzita aggiusta il fazzoletto sul capo, il suo sguardo da topo intercetta gli orecchini appoggiati sopra una mensola e si posa, senza mettere a fuoco, sulla parete interna della roulotte. Zuppa di patate e cipolla nella pentola media nel caso qualcun altro ritorni, pochi minuti per sbucciar le patate, una quarantina per cucinare, ha più di un’ora davanti. Sistemati i pensieri sul pranzo, apre un cassetto da cui tira fuori la foto della nipote, Merita, protetta da due cartoncini legati da un pezzo di spago. Nel campo c’è calma, sono quasi tutti in città, soltanto vecchi e qualche bambino. Con in mano la foto, Alie scende e si siede sotto il telo veranda che si allunga dalla roulotte, con le dita allontana l’immagine della nipote alla giusta distanza dai suoi occhi neri da presbite: manca poco che diventi una donna, non si può più aspettare. Alla ricerca della soluzione migliore, soppesa, si sforza di non dimenticare nessuno, nessuna famiglia, lancia un’occhiata al marito intento a capire se un paio di scarpe recuperate da un cassonetto si possono mettere in sesto, scorre di nuovo la catena delle possibilità, chiude un attimo gli occhi, sospira: nessun candidato all’altezza in Campania.
Trasportata come una reliquia da una vecchia golf rumorosa, la foto attraversa l’Italia, approda in un campo al margine della zona industriale di Padova; segue altro viavai di emissari, si discute, si tratta. Il futuro marito possiede un camion/furgone da cui vende bevande e panini alla piastra, un grande furgone che ogni mattina parcheggia in un punto strategico della zona industriale dove nessuno si azzarda a dargli fastidio; decine di extracomunitari i clienti, anche qualche italiano. Attività ricca, famiglia potente, elemosina e piccolo furto alle spalle, forse intelligenza e freddezza per qualche traffico grande. E’ quasi terminata l’estate quando si chiude l’accordo. Le donne del campo cucinano attorno a pentoloni fumanti in un inseguimento di parole e di voci alla cui ombra Alie riflette sul cambiamento di vita che attende Merita, sul benessere che ha conquistato per lei: la possibilità di una casa, la fine degli inverni gelati e delle estati roventi, degli sfollamenti improvvisi, degli arresti notturni, delle sassaiole sul campo. Merita avrebbe aiutato il marito, la sua bellezza, il suo sorriso, il suo volto avrebbero incantato i clienti, al sicuro delle protezioni di lui, avrebbero irrobustito gli affari.
Una giornata piovosa e ventosa annuncia l’autunno e il lunghissimo tunnel che separa il presente dal matrimonio; dopo tanto parlare, adesso è bene tacere, evitare di esporsi a occhi e orecchie invidiosi: come l’equilibrista di un circo su un filo, in bilico fino all’ultimo metro, qualunque buona promessa futura può dissolversi anche l’ultimo istante; così, se qualcuno torna sul matrimonio, è evasiva, si limita a qualche frase di circostanza, prova a cambiare discorso. Subentra l’inverno che porta chiusura, incattivisce l’esterno che, assurdamente padrone, si sfoga sfollandoli da S. Maria Capua Vetere. L’insediamento nel nuovo campo di Teverola, alle porte di Aversa, si assesta all’inizio del 2006. Per giorni non smette di piovere, la vita fatica a ridiventare normale, gelo e umidità nelle ossa, fuoco soltanto nei bronchi di tosse, infinitamente lontano l’entusiasmo con cui – partendo da quella foto – Alie si era data da fare, il grigio che soffoca il cielo le impedisce di vedere il futuro, d’immaginare che la pioggia a un certo punto finisca lasciando il posto all’estate, all’allegria e all’ubriachezza della festa di matrimonio, alle 2 notti a piedi nudi a ballare con le gonne lunghe fruscianti, i volti sudati rischiarati dal fuoco, l’odore di carne arrostita, le note dei musicisti che non lasciano tregua a violini, fisarmoniche e ottoni: il matrimonio annunciato è promessa di ciarlatano. Rimestando con la saliva un sapore amaro d’inganno, il sospetto di Alie va oltre: sarà solo la lontananza di Merita da loro il prezzo pagato? Come la tratteranno, come si troverà? E se dovesse iniziare a picchiarla, a trattarla come una schiava, a venderla ai clienti nello squallore di una zona industriale? E se ci fosse già un’altra donna a incatenare il cuore di lui, a muoverne fili di burattino, a gestirne vita e ricchezza? Il rumore di zampe di un cane randagio col pelo bagnato, spintosi sotto la tenda-veranda alla ricerca di cibo, scuote la donna, che con un urlo lo scaccia. Con lentezza, Alie riabbassa la testa verso le foto che ha preso nel tentativo di conquistare qualche ora all’immobilità del maltempo. Meccanicamente le sfoglia, si ferma all’immagine che la ritrae col marito: Saban seduto sulla poltrona, la camicia a righine, le sue grandi orecchie, lei in piedi di lato un po’ discosta da lui, poiché le sembrava strano abbracciarlo o stringersi a lui come fossero due fidanzati; erano rilassati quel giorno. Lo aveva sposato che era poco più di una bimba, era bella anche lei, lui sicuramente più solido, ma quasi nemmeno ricorda: soffocato da quel cielo di merda, il passato è un frammento malfermo d’infanzia lontana, la testa riesce a vedere soltanto il presente, i volti rugosi di adesso, gli occhi acquosi e la tosse che scuote il torace di suo marito, senza passaggi intermedi.
La luce di un raggio di sole ammorbidisce la penombra della roulotte; animali ammaestrati, i pensieri di Alie cambiano direzione, passano per l’invidia di alcuni che serpeggia nel campo per il destino da privilegiata della nipote, sostano un attimo sull’istinto di soffocare le malelingue, proseguono. Negli ultimi mesi Merita si è fatta ancora più bella, lo sguardo è diventato profondo, involontariamente sensuale, i seni sono usciti forti all’infuori. Un paio di settimane prima, lungo lo stradone che porta in città, dopo il pezzo di terra incolta che lo separa dal campo, Alie aveva posato lo sguardo su un gigantesco cartellone pubblicitario, dove una bruna avvenente con una camicetta bianca scollata pubblicizzava caffè; al posto di quella donna Alie aveva immaginato Merita: stessa posa, stesso vestito, stessi rossetto, smalto sulle unghie e gioielli; con una foto del genere forse avrebbe potuto fare ancora più strada.
Tempo addietro Alie aveva sentito di una loro ragazza assai bella che in Calabria aveva fatto perdere la testa al figlio del macellaio del paese, all’inizio c’era stata tensione, quasi uno scontro tra i parenti dell’italiano, che non volevano che uno di loro sposasse una zingara, e la gente del campo, che non voleva che una di loro andasse con un italiano; alla fine il ragazzo l’aveva sposata.
Merita sposa di un italiano; come se poi diventare italiano fosse una cosa da desiderare. Negli occhi stanchi di Alie viene a galla il ricordo di una serata dello scorso dicembre in un quartiere ricco di Napoli dov’era stata mandata in perlustrazione: decine e decine di auto bloccate nel traffico, parte degli automobilisti esasperati, altri come assuefatti. Sui marciapiedi la gente cercava regali, freneticamente guardava vetrine, sui volti espressioni di noia e fastidio: forse non c’erano soldi, forse già avevano tutto, forse non c’era il piacere di farli i regali. Di tanto in tanto qualcuno incontrava un conoscente o un amico: partivano auguri, bacini e bacetti frettolosi ed insulsi. Forse era un mal di testa fortissimo a renderle insopportabile tutto, o forse, semplicemente, a farle vedere le cose com’erano. Senza esitare aveva imboccata una strada residenziale semideserta ancora più ricca spuntata dal nulla; a destra il golfo di Napoli la cui magnifica vista non le faceva né caldo né freddo. Il mal di testa forse si sarebbe calmato bevendo qualcosa di forte, ma non c’erano bar, non c’era anima viva per strada, era una strada chiusa, dorsale di un quartiere esclusivo e isolato dove l’unica chance consisteva nel chiudersi in casa convincendosi di sentirsi appagati per il fatto di vivere lì, con annessi livello sociale e ricchezza. Mentre a soli due passi era un inferno di clacson e fumo di tubi di scappamento, lì regnava il silenzio, un silenzio innaturale e ovattato, incrinato soltanto ogni tanto da un uomo o una donna con un cane al guinzaglio, che la guardavano di sottecchi, all’inizio con circospezione, poi, resisi conto che si trattava di una vecchia che non rappresentava pericolo, con aria schifata: puzza sotto il naso da gente che si crede padrona incongruente con il tanfo sgradevole e la vista delle decine e decine di merde di cane che imbrattavano il marciapiede. Davvero le sarebbe piaciuto svaligiare un appartamento di persone del genere, ma non era un lavoro per loro, che andasse lei con 2 amiche con i soliti mazzi infiniti di chiavi, cacciaviti e ferretti, o i ragazzi, armati della loro sveltezza, di piede di porco e coltello. Antifurti sofisticati avrebbero richiamato le forze dell’ordine, in pochi secondi li avrebbero sbattuti in galera, non come in quartieri più anonimi, dove, al massimo, iniziava a suonare una fastidiosa e stanca sirena che nessuno cagava.
Nauseata da quell’atmosfera imbalsamata, era tornata nell’inferno di traffico da cui era venuta ed era andata alla metro; erano passate le nove e mezza di sera; il fischio assordante del treno in frenata l’aveva irritata, sembrava non volesse finire, fin quando si erano aperte le porte; a bordo pochissimi passeggeri, quasi nessuno italiano: due giovani pieni di brillantina, uno bassino con il piglio sicuro a nascondere l’aspetto tarchiato; perlopiù donne dell’est fra i 40 e i 50: cameriere e badanti che si ritiravano a casa o si avviavano verso turni notturni, sciolte, a proprio agio nel sentirsi comunità tollerata. Il vento sferzante che spazzava la strada buia e semideserta l’aveva aggredita all’uscita della stazione centrale; sotto una pensilina una barbona agonizzava seduta sopra un cartone, avanzando aveva potuto distinguerla meglio: era italiana, doveva avere non più di 30 anni, faccia di buona famiglia, famiglia con un dente d’ingranaggio saltato, negli occhi e nel volto contratto la devastazione della tossicodipendenza, la disperazione sorda di una solitudine senza ritorno, no, non sarebbe mai accaduto a un rom di vivere quell’abbandono! Non era vero che avrebbero scambiato la loro esistenza con quella degli italiani, l’invidia per loro era solo apparenza, un espediente per lamentarsi, sentirsi vittime, avere maschera adatta a elemosinare, rubare, accettare il disprezzo. Desideravano solo la loro ricchezza, le cose, gli oggetti che avevano: quello sì, l’avrebbero preso. A conferma di questo, le era venuto in mente quello che aveva ascoltato una volta: a uno dei loro, in un posto che si chiamava Toscana, avevano offerto un lavoro come operaio e una casa; viveva accanto ad altri italiani, i suoi figli andavano a scuola, ma fuori da scuola e lavoro, non li avvicinava nessuno anche se, a dire il vero, anche gli altri italiani in quel posto non frequentavano quasi nessuno. Erano andati avanti un anno così, finché il gelo del sentirsi isolati, il senso di prigionia di una vita banale e ripetitiva li aveva fatti scoppiare. Una mattina d’estate, avevano abbandonato casa e lavoro, erano andati in un campo, lui era tornato a campare con piccoli lavoretti, elemosina e furti.
C’erano ancora un po’ di cose da organizzare per il matrimonio. 3 giorni prima, l’aveva attirata una foto di sposa in una vetrina a Caserta; si era fermata a guardare. La commessa da dentro al negozio si era accorta di lei, pensando di non essere vista, era rimasta a scrutarla con preoccupazione. Accanto alla foto, erano esposti 2 album, uno chiuso così da mostrare la copertina di cuoio, l’altro aperto, in modo da far vedere l’effetto delle foto all’interno; ad Alie era venuto lo sfizio di capire un intero servizio di matrimonio com’era, così si era data lo slancio e era entrata; aveva messo a tacere il disagio della commessa posando una banconota da 100 euro sul banco. Nelle foto che si susseguivano, aveva provato a vedere Merita. Era bello quell’album, belle le foto, ma non era per loro: non avrebbe saputo dove tenerlo; i nipoti, i bambini del campo l’avrebbero preso d’assalto, decine di piccole mani sporche di tutto, sarebbe durato pochissimi giorni. Mentre rifletteva su questo, aveva perso lo sguardo nel verde cangiante della banconota, ma subito si era ripresa; con un movimento quasi aggressivo, la mano aveva ripreso il denaro dal banco e senza degnare nemmeno di uno sguardo veloce la commessa, ferma tutto il tempo su un’espressione a metà tra disgusto e sorriso, era andata.