PROJECT
Ritratti in posa, in grande formato
Fin dalla sua nascita, la fotografia si è riconosciuta nel genere del ritratto, un genere che oggi, superate le iniziali difficoltà tecniche e operative e grazie alla carica di suggestione che innesca tra fotografo e soggetto, può annullare le distanze dovute ai ruoli tra i due attori dell’evento. A patto che l’operazione risponda a uno scopo preciso.
Al suo interno sono nati e si sono sviluppati nel tempo diversi indirizzi specialistici: il ritratto psicologico, caratterizzato, ambientato in interni o in esterni e, vorrei dire, il ritratto dello stato esistenziale. Per questo ultimo, non censito da alcuna fonte, mi riferisco in particolare a due immagini di Federico Fellini, l’una ripresa da Tazio Secchiaroli nel 1972, l’altra di Elisabetta catalano nel 1993. Nella prima registra, nel pieno del suo fervore creativo, lancia all’osservatore un gesto di provocatoria sfida; nella seconda si accomiata da lui e dal palcoscenico della vita con un gesto di amichevole e conciliante saluto.
Esiste ancora una distinzione fondamentale nella vasta produzione del ritratto, che si esprime nella ripresa in posa e istantanea. La prima, naturalmente “staticizzante”, la seconda, dinamica. Come dire, da una parte Nadar, dall’altra Cartier-Bresson.
Su quale dei due metodi indirizzare il percorso operativo è una scelta del fotografo come pure, superfluo ricordarlo, del fotografo è l’individuazione, o la scelta, del soggetto. Un soggetto che è un pò come l’amico che, appunto, si sceglie, al contrario del parente che la sorte ci assegna.
Patrizia ha considerato come “amici” per questo viaggio affascinante in una cultura, in un novero di tradizioni, usi e costumi “diversi” il mondo dei Rom. Destinati a vivere all’interno di campi nomadi, più o meno attrezzati dalla tolleranza istituzionale, i Rom sono stati al massimo soggetti “adatti” al reportage, al racconto che ha inteso spesso portare in primo piano una condizione di “diversità” da molti ancora loro attribuita.
Penso di non riferire un dato inesatto se ricordo che Patrizia è stata la prima fotografa che, nel momento in cui si è dotata del proprio apparecchio a banco ottico – meta consacratoria di ogni professionalità fotografica – ha pensato di dedicare l’opera prima alla comunità Rom presente nei luoghi originari della sua esistenza, chiedendo ai suoi rappresentanti il permesso di fotografarli, offrendo così ad ogni soggetto l’opportunità unica nella quale egli potesse legittimamente considerarsi protagonista di un evento riservato fino ad allora ai soggetti privilegiati: l’applicazione del “massimo sistema fotografico” alla tramandazione della loro personalità.
La superficie sensibile utilizzata, impropriamente chiamata “lastra”, della quale richiama comunque il “grande formato” in ripresa, ha fatto emergere nei soggetti ogni dettaglio visivo ed espressivo, i tratti marcati e nobili, gli sguardi dolci e fieri, gli abbigliamenti essenziali di un’ etnia che riesce a rimanere se stessa nei propri elementi qualificanti, a dispetto della svolta impressa alla società dal mondo tecnologico. Anche se, come si è letto tempo addietro, il capo di una famiglia Rom, nella Capitale, chiese di essere sepolto portando con sé, nel viaggio della meta più imperscrutabile, moderna maschera del Fayum, il telefono cellulare e il computer.
Ecco, proprio in questa contraddizione si possono ritrovare i tratti originari di un’ atavica scelta di vita: vivere il presente, dotarsi dei mezzi che esso offre, non distaccarsene neppure nell’incognita del viaggio più misterioso e restare fondamentalmente “Rom”, godendo del privilegio conclusivo del compartimento di fiori sul tragitto del corteo funebre, al suono del “Tu chi mi hai preso il cuor”.
Anche se nei volti non si ritrovano tratti similari della struggente malinconia, l’aggregazione dei gruppi, la posa costruita sullo sfondo delle abitazione, la postura di diversi soggetti, richiamano nella loro atmosfera globale i tratti caratterizzanti delle belle immagini di Walker Evans e Dorothea Lange, ripresi nel corso della campagna promossa da Farm, iscritte a pieno titolo negli annali della fotografia sociale. Del resto, anche la celeberrima “Madre migrante” della seconda fu ripresa all’interno di una consenziente posa.
Non una metamorfosi di un genere, nell’uno e nell’altro caso, ma un interscambio tra i due generi che si arricchiscono ciascuno degli aspetti più speculari dell’altro. Ecco emergere, così la categoria del ritratto sociale.
Patrizia ha saputo coglierne tutti gli aspetti forse proprio perché la posa resa ancor più comunicativa della complessità delle operazioni richieste dall’apparecchio a banco ottico, sintetizzabile nel caricamento della lastra, nella particolare modalità di messa a fuoco, nell’inserimento dello chassis nello scatto e nell’ estrazione dello chassis, ha consentito di dialogare – forse anche senza parlare – ma proprio per questo più intensamente, con tutti i suoi soggetti rendendoli edotti del loro importante contributo a un evento che restava ai confini dell’impossibile. Un evento che è stato capace di trasformare un campo nomadi in un set pregno di umana e solidale sensibilità.
Gianfranco Arciero
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